Nel limbo

Non ti era bastato, il casino che avevi fatto arrivando. Quando mi avevi fatto fare la corsa notturna che a me sembrava la più inutile di sempre, perchè a cosa serve correre se tanto al traguardo non c’è più nessuno che ti aspetta? Né tu, né la mamma.

Invece c’eravate. C’eri. Ma forse hai pensato che io non ti avessi notato come meritavi. E avevi ragione, sai; papà non stava molto bene, ora va meglio anche grazie a te, ma in quel momento riuscivo solo in parte a rendermi conto della meraviglia che ci era capitata. Hai scelto me, che non ti guardavo poi così tanto, per far arrivare il messaggio: “Scusate, io sto male, ho bisogno di voi”. Resto dell’idea che avresti potuto scegliere un altro modo per attirare la mia attenzione, monello…

La mia lunga convivenza con il respiro mozzato mi ha fatto vedere quel che tu volevi vedessi, ossia che quella domenica notte la tua cassa toracica da passerotto si contraeva in maniera innaturale. Al pronto soccorso, poche ore dopo, sei arrivato in tempo per poterla raccontare (un giorno; ora non sei ancora capace a dire altro che “memememe”), ma non per salvare il tuo polmone. Avevi un mese ma era come fossi nato il giorno prima, tanto eri prematuro, minuscolo.

Così siamo entrati nel mondo della RIA, che non è una strana azienda ma il reparto di rianimazione pediatrica. Un posto diverso. Diverso da tutto.

Perchè ci sono posti dove c’è vita, tanti. Altri dove non ce n’è.
Qui è il posto delle vite sospese: il limbo.
Vite di pochi giorni, o al massimo di pochi anni.

 

Un’amica che le conosce bene ci aveva detto che il personale che lavora lì dentro è noto nell’ambiente per essere freddo, distaccato, rispetto agli infermieri di altri reparti; in parte è vero (non sempre), ma è a dir poco comprensibile: è l’unico modo per restare umani in un luogo così, io mi sono sentito stracciare il cuore più volte in un mese di permanenza.

Lì scopri cose che non immaginavi e che preferivi non immaginare. Se come tanti hai sempre detto a te stesso che la malattia di un bambino è “un’ingiustizia”, perdi semplicemente le definizioni quando vedi cuccioli cui la natura ha fatto delle cose troppo assurde, troppo crudeli per essere vere. E invece sono lì, tuoi vicini di lettino.

 

Ti hanno infilato tanti di quei tubicini, Bino. Mamma una sera li ha contati: erano 16. Ti tenevano in vita.

Dopo qualche giorno sembrava peggiorassi ancora, non bastava mai l’ossigeno, il polmone non dava segni di risveglio, tu nemmeno. Ti potevo solo sfiorare con due dita, dopo i mille lavaggi che la rianimazione impone; e ti parlavamo, ti cantavamo le canzoni. Mamma molto più di me, io facevo quel che le mie condizioni mi permettevano.

Tenevo costantemente sott’occhio gli indici sui monitor di tutte le macchine cui eri collegato, col batticuore dell’ignoranza a mille, con l’incubo della saturazione.

Eri minuscolo.

 

Un’ora di pullman per venire da te, un’altra per tornare a spiegare a Ernesto perchè quel cosino atteso per un tempo infinito era appena arrivato ed era subito sparito; anche lui, come me ma per altri motivi, quasi non si era accorto di te.

Hai scelto me anche per riaprire gli occhi (grazie). Li hai riaperti su un papà diverso, stanco, piegato, sempre più grosso: ma intanto era diventato davvero tuo papà.

 

 

Non scorderemo mai quel mese, anzi a volte facciamo – specie mamma, che l’ha vissuto di più – fatica a scrollarcelo di dosso. Tu non lo sai più, sei diventato biondo, bello e grasso come un suino, ridi sempre e sei l’immagine della salute, come dicono le vecchiette qui sotto.

Sei mesi fa proprio oggi lo lasciavamo, quel posto. Dove abbiamo visto le vite in sospeso nei lettini, ma anche accanto: famiglie che, magari bloccate lì per mesi e mesi – come quella della bimba che era in stanza con noi -, erano di fatto disunite, con un genitore sempre via, un fratello a casa che si sente (lo è) solo. Abbiamo visto cose brutte. La sensazione straniante di toccare con i miei occhi al pomeriggio le notizie di cronaca che al mattino avevo diffuso per lavoro. Michela, che sentirà per sempre risuonare l’urlo del ragazzino cui hanno appena detto tutta la verità.

Fuori da quel limbo, ce n’è un altro: quello di chi non può entrare. In RIA ci sono norme rigide per l’accesso, movimenti controllati, un genitore solo e possibilmente nemmeno sempre. Fuori, che nemmeno il corpicino incosciente si può vedere, quel turbine di amore doloroso che c’è nel petto si riversa sui muri. Venti metri, su due lati, per tre di altezza, senza un centimetro libero: fa una certa impressione. Italiano, arabo, ebraico, spagnolo, romeno, inglese, cinese. La gran parte dicono “tieni duro”, declinato in cento forme; molti ringraziano la tale dottoressa, il tale infermiere; parecchi si rivolgono a Dio. Ci sono i messaggi più brutti, i “di nuovo qui”; e tutti quelli di gioia, i “che bello, ce l’abbiamo fatta, si torna a casa”. E poi ci sono quelli che hanno trovato la forza, non so dove, per un saluto: “Ciao alla stellina più luminosa che da oggi brilla nel cielo”.

Sono tanti. Noi siamo usciti.

p.s.: quasi inutile, ma doveroso, sottolineare l’altissimo livello delle strutture e del personale medico con cui abbiamo convissuto. Anzi colgo l’occasione per scusarmi con loro: per allungarmi a guardare da vicino il visino di Bino (non potevo baciarlo), mi sono…appoggiato con le mani su una spondina del lettino, e inspiegabilmente questa non ha retto al mio dolce peso. L’ho rabberciata e ho taciuto vigliaccamente, per poi scoprire da Michela che un’infermiera era stata (bonariamente) accusata al mio posto. D’oh  :-[

Commenti

  1. Drizzt dice

    Ho trascorso solo 70 minuti in quel limbo, ma leggendo gli strazianti messaggi su quei muri, pareva fossero ore.. se non giorni..
    È difficile sostare a pochi centimetri da tanta sofferenza e rimanere distaccati.. Appena entri nella sala d’aspetto vieni colpito dalla strana atmosfera presente, ma ancora non sai e non comprendi..
    Poi.. poco alla volta, minuto dopo minuto, prendi coscienza, ti arrivano brandelli di una conversazione, poi di un’altra, un’altra ancora e di colpo ti alzi in piedi, forse per allontanarti dal dolore ormai palpabile e ti accorgi di quei segni sul muro..
    La curiosità e la volontà di non essere partecipi del dolore in quelle conversazioni, ti porta a leggere quei messaggi.. ed è lì che la sofferenza e la speranza ti aspettano..
    In pochi minuti, non c’è più distinzione di etnia, o colore che tenga.. Solo un muto strazio che ti prende lo stomaco.. e ti ritrovi con la vista che si annebbia e due rivoli caldi lungo le guance..